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Il populismo si cura cambiando l’Europa

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Nel Vecchio Continente è considerato il moderno nemico delle democrazie. L’Unione Europea, sicuramente non abituata a iniziative di questo genere, ha addirittura messo in gestazione, su iniziativa di Herman Van Rompuy e Mario Monti, un’apposita manifestazione politica dei leader europei contro il populismo. Meeting che si sarebbe dovuto tenere a Roma se le elezioni politiche anticipate non ne avessero consigliato uno slittamento. Ma, come accade spesso in queste circostanze, l’enfatizzazione di un concetto conduce a una sua ipersemplificazione, a un’estensione indebita. Così nel discorso pubblico corrente, da una parte il populismo diventa un gigantesco alibi per governanti inetti o peggio corrotti, dall’altra un’insidiosa accusa politica da lanciare a mo’ di strale contro gli avversari delmomento. Proviamo dunque con il politologo francese Yves Mény, presidente emerito dell’Istituto europeo di Firenze, autore insieme al collega Yves Surel di un libro fondamentale (Populismo e democrazia, il Mulino, 2001), a delimitarne il perimetro e nel contempo indagare meglio il pericolo populista.

Cerchiamo quantomeno di dividere il populismo almeno in due componenti, quella strutturale, con le culture politiche che la alimentano, e quella congiunturale, legata a quello che lei ha chiamato «lo sconforto» degli elettori.

«Innanzitutto va ricordato che c’è una componente di estrema destra che esprime una radicata ostilità verso il sistema democratico. Il popolo è l’unica fonte positiva di legittimità ed è contrapposto alle istituzioni. Questo tipo di populismo ha dietro di sé la nostalgia di un potere assoluto e il culto del capo rivela in questo caso un fondo autoritario. Con questa componente i politici democratici fanno i conti da tempo e tutto sommato la conoscono».

Più recente è la nascita di un populismo che, con approssimazione, potremmo definire di sinistra.

«Sì, è decisamente più recente. I partiti comunisti occidentali hanno avuto per decenni la capacità di canalizzare il populismo presente nella classe operaia dentro una cultura di partito che aveva sue strutture e una sua ideologia. In questo modo sono stati in grado di coniugare pulsioni nobili con sentimenti meno nobili. Quando questa capacità si è attenuata, abbiamo visto in Francia contrapposizioni dirette e violente tra operai e immigrati che vivevano fianco a fianco nelle banlieue e avevano sviluppato un rancore reciproco che non conosceva mediazioni. Poi abbiamo constatato come una buona fetta del voto operaio si sia rivolto in Francia verso il Front National di Jean-Marie Le Pen (oggi guidato da sua figlia Marine) e in Italia verso la novità rappresentata dalla Lega Nord».

Quando nel dibattito politico italiano si accenna a un populismo di sinistra, ci si riferisce al movimento di Beppe Grillo.

«Il populismo è un fenomeno dotato di una grande mobilità, si sposta velocemente. Viene facilitato nei suoi slittamenti dalle sconfitte dei partiti quando non riescono più ad essere interclassisti, a mediare la domanda sociale. Quello di Grillo è un populismo particolare, che si basa sulla contrapposizione ai partiti, ma si nutre anche delle qualità tecniche di un comico nell’intrattenere la gente. Sono curioso di vedere se riuscirà ad avere un buon numero di eletti in Parlamento, perché a quel punto non potrà vivere più di barzellette, dovrà uscire allo scoperto. A Parma, dove i grillini hanno conquistato il Comune, è già così. La realtà ha già presentato il conto senza attendere quei due-tre anni che in genere rappresentano la luna di miele dei movimenti populisti che vanno al potere».

Una particolarità di Grillo è anche l’utilizzo ottimale delle potenzialità della Rete.

«Internet è neutra, anche Obama l’ha usata per essere eletto, ma ha effetti dirompenti per la politica. I vecchi partiti europei non sono abituati a usarla, mentre per i democratici americani è diverso. In fondo il populismo è consustanziale alla democrazia americana, lì i partiti sono macchine elettorali e non strutture permanenti. Sostituirli con un rapporto diretto tra il capo e la Rete è semplice. Comunque si può dire che la Rete nel tempomodificherà la politica e può favorire sia il populismo sia la personalizzazione».

Veniamo al cosiddetto populismo «da sconforto».

«La delusione nasce perché le politiche dei governi non sono state in grado di affrontare i problemi e la crisi ovviamente fa emergere questo deficit con maggior evidenza. Si manifesta uno scarto tra il discorso politico e la sua concretizzazione. Non sottovalutate poi la complicazione rappresentata dalla suddivisione dei poteri tra i governi nazionali e Bruxelles. Tutti gli esecutivi sono schiacciati tra livello di decisione sovranazionale e globalizzazione economica: ciò produce una forma di sovranità limitata che i partiti tendono però a nascondere. A livello nazionale si possono adottare politiche sociali differenti, ma nessun governo può permettersi di scegliere quelle più generose, perché per finanziarle dovrebbe aumentare le tasse e aprire la strada a vicende come quella che oggi vede l’Inghilterra di David Cameron mettere il tappeto rosso alle aziende che vogliono scappare dalla Francia di François Hollande. I partiti dovrebbero dire invece agli elettori che la famosa stanza dei bottoni non esiste».

Considera anche Silvio Berlusconi alla stregua di un leader populista?

«Berlusconi è stato abile nel combinare la presenza al potere con la critica del sistema, premier e tribuno insieme. Non conosco altri politici che siano riusciti a sopravvivere a lungo con queste contraddizioni, perché se è vero che i presidenti americani di matrice repubblicana in genere sono sempre molto critici verso la burocrazia, non si azzardano però ad attaccare la magistratura o la Costituzione. Se ne guardano bene».

Ma lo schema premier/tribuno si può ripetere all’infinito?

«Non credo e la difficoltà del suo governo ad affrontare la crisi economica lo dimostra. Se fosse stato lungimirante, Berlusconi avrebbe dovuto sfruttare il populismo per poi costruire una destra forte e autorevole, capace di pensare e attuare riforme di destra. Charles de Gaulle odiava i partiti, ma non era populista, le sue riforme economiche e istituzionali hanno avuto un grande impatto».

Alla fin fine lei ci sta dicendo che dobbiamo abituarci, specie in una stagione di grande crisi economica, a convivere con il populismo?

«Convivere è un’espressione forte e sicuramente farà storcere il naso a più di qualcuno. Ma, purtroppo, il populismo sarà un elemento presente nella dialettica delle democrazie moderne. Non può essere espulso e comunque è impensabile che ciò possa avvenire solo facendo riferimento alla retorica democratica».

Convivere ma lottando, spero. Dia allora un paio di consigli ai politici democratici per tentare di uscire vincitori da questa inedita sfida.

«Il primo consiglio che mi sento di dare è quello di organizzare un’operazione verità. Invece di infarcire le campagne elettorali di promesse che poi regolarmente non si potranno mantenere, un politico responsabile dovrebbe spiegare ai cittadini elettori qual è la mappa reale dei poteri tra livello nazionale e sovranazionale. Raccontare qual è la vera posta in palio delle elezioni. Se bara, se ne pentirà amaramente».

Il primo consiglio è abbastanza radicale. E il secondo?

«Altrettanto. Essere meno concilianti con Bruxelles. Sia chiaro: penso che la difesa delle istituzioni europee sia doverosa e sacrosanta, ma le singole politiche varate dalla Commissione possono essere tranquillamente contestate, è un esercizio che fa parte della dialettica e del conflitto democratico. L’accettazione cieca di qualsiasi cosa venga da Bruxelles aiuta il populismo, lo facilita nella costruzione delle sue accuse, nel gridare al tradimento delle élite. Si deve e si può dire agli elettori che la Ue ha smesso di far politica, per esempio, e che ha ristretto i suoi orizzonti all’economia e all’approccio tecnocratico».
Twitter @dariodivico

Dario Di Vico

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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